Si fa presto a dire Casoncelli - i Caicc de Bre del condominio!
testo e foto di Roberta Cornali- La Valigia sul letto
Se proprio mi obbligaste a dare una definizione di “Casoncello”, vi direi che si tratta di una pasta ripiena tipica di alcune zone della Lombardia. Oltre non andrei. Perche’ questa, a parte il nome, e’ l’unica cosa che accomuna una quantita’ incalcolabile di ricette anche molto differenti le une dalle altre. Adesso che ci penso, pero’, ce n’e’ anche un’altra... ma ve la dico dopo.
Bergamo, Brescia e un pochino anche Mantova e Cremona, le province in cui i casoncelli sono maggiormente diffusi. Casonsei, cadonhei, caronsei alcuni dei loro nomi dialettali, mentre a Breno, in Val Camonica, vengono chiamati caicc ed in alta valle, intorno a Ponte di Legno, prendono il nome di calsu’.
Inaspettatamente, proprio quest’ultimo e’ il nome che forse piu’ si avvicina a quello originale, dato che quando questo tipo di pasta ripiena ha fatto la sua comparsa, e pare che si debba andare indietro di qualche secolo, il ripieno era avvolto da un rettangolino di pasta che veniva prima arrotolato a formare un cilindretto e poi piegato a ferro di cavallo, fino a farlo assomigliare ad un piccolo calzone da uomo, appunto. In ogni caso, la tesi piu’ accreditata riguardo l’origine del nome, dice che potrebbe derivare da caseus, cioe’ formaggio, da sempre uno degli ingredienti principali del ripieno dei casoncelli, soprattutto nelle loro varianti magre, cioe’ prive di carne.
“Chei che ‘mpasta i casonsei, i maia fora la casa e i tempiei”, che piu’ o meno vuol dire: “ Quelli che impastano i casoncelli, sperperano tutti i loro averi “. Questa affermazione categorica proveniente dalla saggezza popolare, ci fa capire come, in passato, questo piatto fosse roba da ricchi. Cosa che mi sento di confermare, dato che io, nonostante sia figlia di un bergamasco, da piccola non li ho mai sentiti nominare, ne’ li ho mai visti preparare in famiglia. Anche se va detto che, nel caso di mio padre, la condizione di poverta’ contadina era ulteriormente complicata dalle leggendarie carenze culinarie di mia nonna...
Comunque l’incontro tra i casoncelli ed il popolo avviene in epoca recente, in quel dopoguerra in cui l’atavica miseria del mondo contadino e di quel nuovo ceto operaio che si va formando, lascia il posto a tempi meno indigenti. Ora ci si puo’ permettere di portare a tavola un piatto di casoncelli, magari solo alla vigilia di Natale o per la festa del santo patrono, anche senza andare in rovina. Con gli anni ’60 arriva il cosiddetto boom economico e quindi i casoncelli fanno la loro comparsa anche sulla tavola della domenica, ma restano comunque un tipico piatto “della festa”.
Eppure, nonostante la loro relativamente recente popolarita’, oggi esistono innumerevoli varianti della ricetta, non solo da provincia a provincia, ma da paese a paese e addirittura all’interno dello stesso piccolo borgo, dove praticamente ogni famiglia ha la sua ricetta tradizionale.
E qui arriva il terzo punto che accomuna le differenti versioni: il loro potere evocativo.
Come dicevo, personalmente non ho tradizioni famigliari legate a questo piatto, quindi mi sono informata un po’ in giro, tra le mie amicizie originarie di Bergamo o Brescia e provincia. ...Non che sia dovuta andare poi cosi’ lontano, per cominciare, dato che ho sposato un camuno...Ognuna delle persone interpellate, alla parola casoncello, con gli occhi umidi di nostalgia inizia a descrivere scene famigliari di nonne e mamme con mani e grembiuli infarinati, di distese di fagottini ripieni che ricoprono i tavoli e i mobili di tutta la casa, di collaborazione e divisione dei compiti, di riunioni festose di allegre compagnie, con tanto di zii canterini, zie pettegole e cugini dispettosi....
Dolcissimo, ma lo so che sono di parte, il racconto del maritino, che ricorda i Caicc de Bre, i casoncelli tipici di Breno, della sua infanzia. Niente mamme con le mani in pasta qui e non per pigrizia, ma per umilta’: l’umilta’ di mia suocera nell’ammettere che per quanto impegno ci mettesse nel fare i suoi casoncelli, quelli dell’osteria vicino a casa erano sempre migliori. Allora si ordinavano per tempo, quelle due volte l’anno imposte dalla tradizione, a Pasqua e a San Valentino, patrono del paese, e il giorno della festa, dopo la messa grande, si tornava a casa a prendere una pentola capace e poi si andava tutti insieme a farsela riempire di fumanti e profumati fagottini....e io non fatico a immaginare un entusiasta ed iperattivo bambinetto biondo, impaziente di sbafarsi la tanto attesa prelibatezza, saltellare sulla via di casa, accanto al papa’ che regge la pesante pentola con il suo prezioso contenuto..
In ben 25 anni di matrimonio, sono rimasta sorda alle ripetute richieste da parte del maritino di replicare i caicc della sua infanzia, comprensibilmente intimorita dal confronto con quei ricordi che, si sa, rendono tutto migliore che nella realta’. C’e’ voluto il tema del mese dell’MT Challenge per mettermi con le spalle al muro, quindi ora eccoli qui:
Caicc de Bre ovvero i Casoncelli di Breno
Ingredienti per 4 o 6 persone
Per la pasta:
450 g di farina di frumento
1 pugno di farina di grano saraceno
4 uova
latte, sale
Per il ripieno:
150 g di bollito magro di vitello
150 g di arrosto di maiale
150 g di salame cotto o crudo
100 g di mortadella
300 g di biete
1 spicchio d’aglio
1 ciuffetto di prezzemolo
5 o 6 foglie di salvia
150 g di gherigli di noce
20 acini di uva sultanina
30 g di amaretti
2-3 cucchiai di pane grattugiato
3 uova
50 g di parmigiano reggiano
olio EVO
sale, pepe, noce moscata
Preparate la pasta mescolando gli sfarinati e sistemandoli a fontana sulla spianatoia; mettete al centro tre uova con una presa di sale e cominciate a lavorate fino al completo assorbimento della farina, aggiungendo la quantità d’acqua necessaria per ottenere un panetto omogeneo, che lascerete riposare per una mezz’ora avvolto in pellicola trasparente.
Per il ripieno, passate nel tritacarne due volte i salumi, il bollito e l’arrosto, le biete cotte al vapore, l’aglio, il prezzemolo, le noci, gli amaretti e, volendo, l’uvetta (ammollata per una mezz’ora in acqua tiepida e ben strizzata) e un pizzico di noce moscata;
incorporate le uova e amalgamate bene, asciugando con il pane grattugiato. Riprendete la pasta e tiratela con il matterello fino a ottenere una sfoglia di spessore non troppo sottile; con uno stampo di 12-14 centimetri di diametro ricavate tanti tondi. In una ciotola rompete l’uovo rimasto e lavoratelo con un cucchiaino di farina di frumento e un po’ di latte; battete bene con una forchetta e utilizzate il composto ottenuto per spennellare i tondi di pasta: questo procedimento serve per fare aderire perfettamente i lembi dei càicc, in modo che cuocendo non si stacchino, mettendo a nudo il ripieno. Ponete al centro di ogni tondo abbondante ripieno, chiudete e sigillate bene.
Lessate la pasta in abbondante acqua salata, scolatela al dente e condite con burro cotto con la salvia fino a diventare di colore nocciola, abbondante parmigiano grattugiato e una macinata di pepe.